Al momento il tuo carrello è vuoto
Sopravvissi, non so come, alla notte,
entrai nel giorno;
per essere salvi, basta esser salvi,
senz'altra formula.
Da allora prendo il mio posto tra i vivi
come chi, commutata la pena,
è candidato alla grazia dell'alba,
ma la sua vera dimora è tra i morti.
(Emily Dickinson)
Novembre 2004.
(...)
–
Per fortuna anche nel terribile quarantaquattro arrivò l’ora
della trebbia. C’era voglia di tirarsi via da quella maledetta Corte
dove non c’era giornata da non dover ingugnare un rospo, dove
la Sgubòuna faceva il suo teatro con delle discussioni di politica
e volavano nel cortile gli urli, dove la Duréla s’intestardiva a partire con le sue sporte prima del coprifuoco e mi martellava il cōr
al pensiero che non tornasse a cà, dove s’era di continuo sorvegliati da tedésch e fascisti che consideravano la Corte un covo di
rivoluzionari e si stava nello spaghetto della rappresaglia.
– E perché, zia, non ti sei decisa a traslocare? In fondo non ci
eri così affettivamente legata a quella dimora, e perché insistere
a starci pur sapendo di essere in pericolo, oltrechè mal vista?
La zia si piega in avanti. Si torce le dita e le fa scrocchiare.
– Mah! Non lo so neanch’io! Perché quella gente che io credevo di detestare, in fondo era la mia gente. Gente della quale
conoscevo infino all’osso magagne, debolezze, carognate, divisioni e puttanate. Gente che si bacaiava dietro, si angariava, se
ne diceva di cotte e di crude e si cornificava a vicenda, però non
si tradiva mai nel bisogno. Gente piegata dal destino, famata,
analfabeta, casinista, con i difetti più brutti, ma gente con del fegato che aveva messo a dormire la fede politica ma non uccisa,
e che nella chiamata alle armi aveva drizzato la testa più viva che mai. Gente povera di privilegi, ma ricca di scarogne e disgrazie,
ignorante della cultura dei sapienti, ma sapiente di esperienza.
Da quella gente avevo imparato a non scappare e a camminare a
testa alta. Eran poi, quelli, momenti tremendi. Dove potevo andare? Si spettava. S’aveva la speranza di tempi meno neri. (pp. 285-286)
(...)
L’Ilde, in prima fila,
era tenuta in piedi dalla madre. La ghigna color delle viole di
campo e piena di groste, un veleno pauroso le pitturava gli occhi
di una luce sinistra. Raccattai in quella guardata un muto messaggio: chi credeva che la partita si chiudeva lì, si sbagliava della
grossa! Si proclamava urbietorbi che l’era finita, finita! Invece da
quegli occhi di tigna, io, ruscai il segno che ci eravamo sliberati
dai tedésch e dai fascisti, sì, ma non dal peggior nemico, l’odio.
E quell’odio che da anni s’era incancrenito nelle alme, tenuto a freno per poter scampare, quell’odio, adesso, s’era drizzato a
bandēra della patria, scaricando le azioni nel tragico istinto della
vendetta. “Il tale, il talaltro, gliela facciam pagare! I bugnoni son venuti
a cò!”. E le minacce passavan di bocca in bocca, ché ognuno
tirava fuori i suoi nomi e i suoi cognomi e i suoi soprannomi,
e denunciava magari Basléin perché vent’anni prima l’aveva coionato, o Sante Rustichél perché l’aveva obbligato a prendere la
tessera e lui non la voleva, o Amos il falegname che girava con
in tasca il giornale del fascio per fare il ganassone. E non ci si
sentiva più al riparo neanche dai vicinanti o dai parenti o dai conoscenti. Prima si camminava sul filo dell’odio dei fascisti, poi
sul filo dell’odio contro i fascisti. Non si trovava più in giro chi
ammetteva d’esser stato fascista, ma ognuno poteva avere avuto
l’idea. E se eri segnalato, non c’avevi scampo. Quando, verso
gli ultimi di quella settimana che non si può scordare, i giornali
tornati liberi fecero dei titoli sperversi su Mussolini e i suoi gerarchi ch’eran stati ingabbiati e giustiziati nelle zone del lago di
Como, da quel momento i freni si sbragarono. E si scatenò la
caccia al fascista. Guerriglieri calati dalla montagna o usciti dalle
cà di latitanza, soldati infognati nei nascondigli e risorti alla luce
del sole, partigiani antichi o dell’ultima sfornata, tutti in corsa
per inseguire e braccare il fascista. Gerarchi, gerarchetti, ducetti,
fanatici e sostenitori erano il bersaglio da centrare. C’eran da
presentare i conti anche a quelli che avevano inventato e pagato
le squadracce stangatore, ai profittatori della miseria del popolo
e agli aiutanti dell’inculento invasore. Il castîgh più grând era
sempre una bagatella in paragone alla gravità dei crimini commessi. Le sofferenze e tribolazioni patite dal popolo, e il sangue dei caduti nella ventennale lotta contro il regime e nella resistenza, reclamavano giustizia. E giustizia si sarebbe fatta! Impiantati
i tribunali del popolo in cui l’imputato potesse difendersi, le sue
colpe non si potevan quasi mai condonare. E non era neanche il
caso di perderci delle ore, per i processi, ché il tempo stringeva.
Gli alleati continuavano i loro cortei trionfanti, poco toccati dai
regolamenti di conti fra italiani. Affar degli italiani se si coppavan fra loro. Anzi, un po’ di sfogo li slontanava dai magoni. Tre
giorni. Ai resistenti eran stati regalati tre giorni, ma non di più,
per fare piazza pulita. Troppo pochi per una vera spazzata, ma
abasta per cavarsi qualche sassolino dalla scarpa. Quei tre giorni
si trasformarono in una galoppata diretta a scovare i fetenti del
passato.
(pp. 341-343)
Nel quarantaquattro, Dio era morto. E s’era portato nella tomba l’umana ragione. Assieme alla speranza. Nel quarantaquattro s’ammazzavano donne, vecchi e bambini, così, per un’idea. S’ammazzava e basta. Perché Dio era morto. E neanche il lutto era permesso, nel quarantaquattro. Perché il soffrire era un lusso. Il lutto era un episodio di vita quotidiana, una pagina di uno spesso libro di lutti. Non c’era tempo per godersi il proprio dolore, non c’era tempo e spazio per i morti. C’era da pensare ai vivi, rovellarsi le meningi per strologare il modo per sopravvivere, perché oramai era tutto un campo di battaglia e le trincee si erano spostate in ogni città e paese e borgo. Perché questa era una guéra di popolo, una sporca lurida guéra, e di più schifoso al mondo non c’era neanche la fame. Un popolo che si coppava uno con l’altro, che si faceva le spiate e le denunzie, che si aveva in odio, non era un popolo. In profondo, il popolo italiano era morto. Era morto con Dio. Nel quarantaquattro, il popolo italiano era una rantumaglia di gente impaurita, insicura, sospettosa, rognosa, rinnegata. Nel quarantaquattro, un occhio lo dovevi incollare alle spalle, perché un giuda ti poteva svendere al nemico anche per pochi denari, e ti ritrovavi in faccia a un plotone d’esecuzione senza sapere neanche il perchè. Nel quarantaquattro, dovevi misurare le parole e perfin il fiato. Nel quarantaquattro, dovevi denunciare e uccidere anche tuo fratello per ideali di libertà e giustizia. Nel quarantaquattro, si era nel pieno della partita e ci si giocava il tutto per tutto. Nel quarantaquattro, Dio era per sempre morto. (Fabrizia Amaini)
Da dove è nata l’ispirazione per questo libro?
L’ispirazione non è nata da me, ma è stata istigata dalla protagonista del racconto. Una storia di vita vissuta che ha avuto bisogno dell’ascolto e della verifica dei fatti raccontati. Trattandosi di una microstoria inserita nella macrostoria, ho dovuto appurare la verità tramite ricerche condotte negli archivi e, in particolare, letture dei giornali del ventennio fascista.
Cosa ti ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
Che l’idea fosse interessante e coinvolgente, l’ho capito nel corso del racconto. E man mano che quella vita si snocciolava capivo il senso della storia, capivo il valore della memoria, capivo che la storia ha un’anima assente sui libri. E mi son convinta che se funzionava con me, poteva funzionare con altri.