Fabrizia Amaini

Sopravvissi
non so come alla notte

 
Sopravvissi, non so come, alla notte,
entrai nel giorno;
per essere salvi, basta esser salvi,
senz'altra formula.
Da allora prendo il mio posto tra i vivi
come chi, commutata la pena,
è candidato alla grazia dell'alba,
ma la sua vera dimora è tra i morti.
      
  (Emily Dickinson)

 

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L'incipit...

Novembre 2004.
È una mattina di fine novembre caliginosa e cheta come se il globo avesse rallentato il giro per poltrire un po’. All’orizzonte le sagome delle case sfumano in un vapore padano sputato dalla zolla. Un lontano abbaio naviga nel fitto grigiore, petulante come una perpetua tra le comari.
Avanzo verso il cancello spalancato della pallida villetta che sporge un balcone a mo’ di visiera di berretto. Pigio sul campanello e mi ritorna un’eco stridula.
– Chi è? – Una voce arzilla s’insinua fra le fessure della porta.
– Sono io, zia! Aprimi!.
Uno scalpiccío di passi, intervallati dalla sorda picchiata sulle mattonelle di un bastone, mi ricorda l’andatura di un quadrupede azzoppato. È un cinema che conosco a memoria, quello dell’avanzata trionfante della zia oltre la porta serrata. E ogni volta mi monta una voglia di ridere che ingoio di corsa, prima di vergognarmi. Perbacco, deridere una zia, per giunta vecchia! Se ci fosse mia madre! Ma non puoi farne a meno, a vederla rimorchiarsi la traballante carcassa che ti rammemora un carro scassato e cigolante sotto il peso di un carico di strame da trainare nella stalla. Però è incredibile: la zia scricchiola da tutte le parti, Non so come sopravvissi alla notte.indd 9 11/08/14 16:04 10 ma è pimpante. Come una ragazzetta. E ti salta subito all’occhio questo controsenso: viva dentro, decrepita fuori.


(...)
Quando i parenti tolsero il disturbo, toccò a me di restare in quella Corte, e mi sentii subito persa come nel deserto. La nòna e mio marito eran tanto brilli che la lingua non gli prillava neanche più e cercarono il letto. Mi feci forza e impiai una candela. La fiamma traballava come una stella che muore, mentre rampicavo lo scalone e avevo paura. Tirai l’uscio della camera. Remo, stravaccato sul letto, si lamentava. Un violento tanfo di vomito mi dilatò le bocche del naso. La lucerna sul comodino sparpagnava delle spere lucide contro l’armadio di noce che m’era costato un occhio della testa e tante notti in bianco a mondar teste sudicie, e adesso s’imbibiva del puzzore della ciucca. La madonna in quadro sopra la testiera del letto, in mezzo a due angeli adoranti, mi fissava desolata. I ricami dei lenzuoli cuciti con passione nei pomeriggi di festa, erano impocciati di vomito. M’arrivò una voglia matta di chiudermi la porta alle spalle e scappare a cà mia. Rifeci lo scalone e raggiunsi il dietro della Corte dov’era piantato il pozzo che beverava anche il Cameròun. Il catenone che si srotolava fece gnig gnag e un uccellaccio svolazzò via. Una persiana sbattè. S’affacciò la Sgubòuna che pareva la strìa delle fòle di mio padre.
Ostia, c’hai già bisogno dell’acqua? Ci sei già stata?” Strepitava come una cornacchia.
No, è che vôster fiôl sta male!
Eh.., te vedrē che gli passa!” E quella vociaccia maledetta mi trapassò il cōr. 
                        (pp. 189-190)

(...)
– Per fortuna anche nel terribile quarantaquattro arrivò l’ora della trebbia. C’era voglia di tirarsi via da quella maledetta Corte dove non c’era giornata da non dover ingugnare un rospo, dove la Sgubòuna faceva il suo teatro con delle discussioni di politica e volavano nel cortile gli urli, dove la Duréla s’intestardiva a partire con le sue sporte prima del coprifuoco e mi martellava il cōr al pensiero che non tornasse a cà, dove s’era di continuo sorvegliati da tedésch e fascisti che consideravano la Corte un covo di rivoluzionari e si stava nello spaghetto della rappresaglia.
– E perché, zia, non ti sei decisa a traslocare? In fondo non ci eri così affettivamente legata a quella dimora, e perché insistere a starci pur sapendo di essere in pericolo, oltrechè mal vista? 
La zia si piega in avanti. Si torce le dita e le fa scrocchiare.
– Mah! Non lo so neanch’io! Perché quella gente che io credevo di detestare, in fondo era la mia gente. Gente della quale conoscevo infino all’osso magagne, debolezze, carognate, divisioni e puttanate. Gente che si bacaiava dietro, si angariava, se ne diceva di cotte e di crude e si cornificava a vicenda, però non si tradiva mai nel bisogno. Gente piegata dal destino, famata, analfabeta, casinista, con i difetti più brutti, ma gente con del fegato che aveva messo a dormire la fede politica ma non uccisa, e che nella chiamata alle armi aveva drizzato la testa più viva che mai. Gente povera di privilegi, ma ricca di scarogne e disgrazie, ignorante della cultura dei sapienti, ma sapiente di esperienza. Da quella gente avevo imparato a non scappare e a camminare a testa alta. Eran poi, quelli, momenti tremendi. Dove potevo andare? Si spettava. S’aveva la speranza di tempi meno neri.                         
(pp. 285-286)


(...)
L’Ilde, in prima fila, era tenuta in piedi dalla madre. La ghigna color delle viole di campo e piena di groste, un veleno pauroso le pitturava gli occhi di una luce sinistra. Raccattai in quella guardata un muto messaggio: chi credeva che la partita si chiudeva lì, si sbagliava della grossa! Si proclamava urbietorbi che l’era finita, finita! Invece da quegli occhi di tigna, io, ruscai il segno che ci eravamo sliberati dai tedésch e dai fascisti, sì, ma non dal peggior nemico, l’odio. E quell’odio che da anni s’era incancrenito nelle alme, tenuto a freno per poter scampare, quell’odio, adesso, s’era drizzato a bandēra della patria, scaricando le azioni nel tragico istinto della vendetta. “Il tale, il talaltro, gliela facciam pagare! I bugnoni son venuti a cò!”. E le minacce passavan di bocca in bocca, ché ognuno tirava fuori i suoi nomi e i suoi cognomi e i suoi soprannomi, e denunciava magari Basléin perché vent’anni prima l’aveva coionato, o Sante Rustichél perché l’aveva obbligato a prendere la tessera e lui non la voleva, o Amos il falegname che girava con in tasca il giornale del fascio per fare il ganassone. E non ci si sentiva più al riparo neanche dai vicinanti o dai parenti o dai conoscenti. Prima si camminava sul filo dell’odio dei fascisti, poi sul filo dell’odio contro i fascisti. Non si trovava più in giro chi ammetteva d’esser stato fascista, ma ognuno poteva avere avuto l’idea. E se eri segnalato, non c’avevi scampo. Quando, verso gli ultimi di quella settimana che non si può scordare, i giornali tornati liberi fecero dei titoli sperversi su Mussolini e i suoi gerarchi ch’eran stati ingabbiati e giustiziati nelle zone del lago di Como, da quel momento i freni si sbragarono. E si scatenò la caccia al fascista. Guerriglieri calati dalla montagna o usciti dalle cà di latitanza, soldati infognati nei nascondigli e risorti alla luce del sole, partigiani antichi o dell’ultima sfornata, tutti in corsa per inseguire e braccare il fascista. Gerarchi, gerarchetti, ducetti, fanatici e sostenitori erano il bersaglio da centrare. C’eran da presentare i conti anche a quelli che avevano inventato e pagato le squadracce stangatore, ai profittatori della miseria del popolo e agli aiutanti dell’inculento invasore. Il castîgh più grând era sempre una bagatella in paragone alla gravità dei crimini commessi. Le sofferenze e tribolazioni patite dal popolo, e il sangue dei caduti nella ventennale lotta contro il regime e nella resistenza, reclamavano giustizia. E giustizia si sarebbe fatta! Impiantati i tribunali del popolo in cui l’imputato potesse difendersi, le sue colpe non si potevan quasi mai condonare. E non era neanche il caso di perderci delle ore, per i processi, ché il tempo stringeva. Gli alleati continuavano i loro cortei trionfanti, poco toccati dai regolamenti di conti fra italiani. Affar degli italiani se si coppavan fra loro. Anzi, un po’ di sfogo li slontanava dai magoni. Tre giorni. Ai resistenti eran stati regalati tre giorni, ma non di più, per fare piazza pulita. Troppo pochi per una vera spazzata, ma abasta per cavarsi qualche sassolino dalla scarpa. Quei tre giorni si trasformarono in una galoppata diretta a scovare i fetenti del passato.                               (pp. 341-343)


Che suono ha questo romanzo?

Nel quarantaquattro, Dio era morto. E s’era portato nella tomba l’umana ragione. Assieme alla speranza. Nel quarantaquattro s’ammazzavano donne, vecchi e bambini, così, per un’idea. S’ammazzava e basta. Perché Dio era morto. E neanche il lutto era permesso, nel quarantaquattro. Perché il soffrire era un lusso. Il lutto era un episodio di vita quotidiana, una pagina di uno spesso libro di lutti. Non c’era tempo per godersi il proprio dolore, non c’era tempo e spazio per i morti. C’era da pensare ai vivi, rovellarsi le meningi per strologare il modo per sopravvivere, perché oramai era tutto un campo di battaglia e le trincee si erano spostate in ogni città e paese e borgo. Perché questa era una guéra di popolo, una sporca lurida guéra, e di più schifoso al mondo non c’era neanche la fame. Un popolo che si coppava uno con l’altro, che si faceva le spiate e le denunzie, che si aveva in odio, non era un popolo. In profondo, il popolo italiano era morto. Era morto con Dio. Nel quarantaquattro, il popolo italiano era una rantumaglia di gente impaurita, insicura, sospettosa, rognosa, rinnegata. Nel quarantaquattro, un occhio lo dovevi incollare alle spalle, perché un giuda ti poteva svendere al nemico anche per pochi denari, e ti ritrovavi in faccia a un plotone d’esecuzione senza sapere neanche il perchè. Nel quarantaquattro, dovevi misurare le parole e perfin il fiato. Nel quarantaquattro, dovevi denunciare e uccidere anche tuo fratello per ideali di libertà e giustizia. Nel quarantaquattro, si era nel pieno della partita e ci si giocava il tutto per tutto. Nel quarantaquattro, Dio era per sempre morto.   (Fabrizia Amaini)