Al momento il tuo carrello è vuoto
Trovare le parole per quelli che non le hanno è il dovere dello scrittore
Le storie raccontate da Valeria Mancini non solo contribuiscono a dare voce alle migliaia di donne migranti impiegate come
assistenti familiari, ma ci permettono anche di riflettere sulla
società in cui viviamo, sulle sue trasformazioni e sulle sfide che
queste pongono.
(...)
Le donne che emigrano sole – prevalentemente dall’America Latina, dal Corno d’Africa, dall’est Europa e dal sud-est
asiatico, ma anche come vedremo in questo libro da altri paesi
come il Marocco e il Benin – sono “badanti ideali”, perché non
avendo con sé la famiglia sono più disponibili di altre donne
a rinunciare alla propria vita privata per vivere con le persone
che assistono.
Sebbene spesso si instauri una relazione affettiva tra le lavoratrici e gli anziani, si tratta di una condizione
di lavoro umanamente difficile da sostenere, caratterizzata da
un orario di lavoro indefinito, stress emotivo e solitudine, che
nuoce non solo alle assistenti familiari ma anche agli assistiti,
il cui benessere è indissolubilmente legato al benessere delle
persone che prestano loro assistenza.
"Non sapevamo che per molte notti avremmo pensato il nostro Vladimir con gli occhi tristi e la bocca che sorrideva da un solo lato, seduto sulla bicicletta con cui ci aveva accompagnato al parcheggio. E che per molto tempo, nei nostri sogni, Vladi sarebbe rimasto alto così, col ciuffo spettinato e l’espressione corrucciata in un mezzo sorriso.
(…)
Eravamo donne forti.
Solo le donne forti possono vivere in Italia e fare questo lavoro.
(…)
L’Italia era la nostra speranza" (pp. 24-28)
(...)
"Certe notti risento le onde del mar Nero, il rumore della tempesta, il soffio rabbioso del vento, e vedo i sassolini colorati che si spostano, trascinati dalla risacca. Vanno avanti e indietro. Rotolano e cantano. A volte mi sento anche io come un ciottolo liscio sbattuto dalle onde. Altre volte mi vedo bambina, a cercare conchiglie tra i sassi. E rivedo Irma, la mia sorellina, con le trecce attorcigliate a corona attorno alla testa.
“Giochiamo?” mi dice Irma."
Poi un’onda la spazza via, lei urla e io cerco di salvarla. Annaspo, soffoco e mi sveglio tutta sudata.
Ripenso ai bombardamenti, all’invasione russa dell’Abhcazia nel 1991. (p. 41)
(...)
"Odio questa città, questa scuola, questo paese.
La prima volta lo psicologo mi ha chiesto di disegnare come mi vedo. Ho fatto un bambino con le gambe larghe, una in Ucraina e una in Italia. Poi ho disegnato un bambino con gli occhi chiusi, la lingua fuori e una pistola puntata alla testa.
Poi mi ha detto di disegnare la mamma. Ho fatto un teschio e un mostro che sputa fuoco." (p. 65)
(...)
"Yasmeen è brava, le fa vedere le foto, le fa cantare le canzoncine, le accarezza la mano e la schiena quando si mette a urlare. La lava di notte, con una pezzuola umida, perché farlo di giorno è diventata una battaglia.
Quando la mamma non vuole bere, le dà un bicchiere molto colorato e lei beve. Se non vuole mangiare la zuppa col cucchiaio, la travasa nella sua tazza preferita. Se non vuole andare a letto, suona il campanello di casa, la mamma si alza per vedere chi è, e lei la guida in camera tenendola a braccetto.
“Sento che Allah mi aiuta e consiglia. Io cerco di fare il mio meglio.” Prega cinque volte al giorno, dopo essersi messa un abito lungo e aver predisposto il tappeto da preghiera. E si china delicatamente, con eleganza. Proprio come il fiore del gelsomino, di cui porta il nome. “Ringrazio Dio che mi dà lavoro. Lui aiuta me, io aiuto te con la Mamma.”
Mi commuovono la pazienza e l’affetto di questa donna velata, sicura di sé, sempre sorridente, anche quando la stanchezza è tanta e le le palpebre le si appesantiscono per il sonno." (p. 77)
(...)
"Prima della partenza, la nonna ha voluto che andassi con lei a Cotonou, dove arriva la Strada della Memoria che ricorda le migliaia di uomini e donne del Benin venduti ai mercanti per essere spediti oltreoceano tra il 1600 e il 1700.
Lì avveniva la contrattazione e la marchiatura a fuoco.
Da lì partivano le navi negriere.
Ci siamo avvicinate all’Albero del Ritorno, attorno a cui i prigionieri giravano tre volte per insegnare all’anima la strada del ritorno a casa.
La nonna era vestita di rosso e, mentre io giravo lentamente attorno all’Albero, cantava una nenia malinconica: era il Giorno della Commemorazione, e io sarei partita la settimana dopo.
Ho fatto i classici tre giri, ma con la testa ero già in Italia" (pgg. 113-114)
Venivamo tutte dal mare, di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri, 2012) per la voce corale del primo capitolo.
Cosa ti
ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
Nelle mie
interviste settimanali le donne piangevano, ridevano, mi raccontavano a cuore
aperto la loro vita. Ho capito che c’era
una nicchia di scrittura non ancora indagata, invisibile, da portare alla luce.
Se dovessi sintetizzare in poche righe il messaggio del libro?
“Il
passato di mio figlio è un lenzuolo bianco. Non potrà più essere scritto e
condiviso. Ma ora lui è qui con me. E potrà fare l’Università"
Chi è il lettore ideale del tuo libro?
Persone
curiose, sensibili a tematiche di genere, migrazioni. Studenti aperti nei
confronti di tematiche calde contemporanee. Persone che si interrogano sulla
realtà che li circonda.
Quello della nostalgia e dei ricordi della musica Klezmer...
...quello della gioia di vivere di Astor Piazzola...
...quello della solitudine e dell'intensità di Patrizia Laquidara.