Umberto Li Gioi

Eliza,
una storia macedone

Per amore suo ho rinunciato al mio paese, ai miei affetti
e a tutto ciò che avevo dall’altra parte del mare.
Lo amavo alla follia. Lui era felice. Così non ho mai
trovato il coraggio di dirgli che io lo ero
soltanto a metà.
          
Eliza Trajkoska
  


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Prologo

Mi chiamo Oronzo... Oronzo Operoso. Ma tutti, da sempre, mi chiamano Rino.
Sono nato e vivo a Calimera, in quell’angolo di Puglia conosciuto come Grecìa Salentina.
Nonostante il nome indiscutibilmente pugliese, il sangue che scorre nelle mie vene non è soltanto di questa terra. Devo a mio padre l’appartenenza a essa, ma a mia madre resterò grato in eterno per la parte slava di me.
I miei genitori si erano conosciuti in Macedonia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la stessa sembrava volgere ormai al termine. Quando ancora tutto appariva incerto e il caos regnava sovrano. E il rancore sfociava in incontrollabili vendette.
Poi, alla fine del conflitto, si erano trasferiti qui, nel tacco d’Italia.

Quando Rino mi ha raccontato la storia dei suoi genitori, chiedendomi se fossi disposto a scriverla, ho fatto subito mio il bisogno di conoscere i luoghi dove le vicende si erano svolte.
Avendo già visitato la Macedonia in lungo e in largo, ho intuito che non avrei potuto concludere la stesura dei fatti senza dare il giusto spazio a quanto accaduto a Rodi durante i drammatici anni della guerra, prima e dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Ho perciò deciso di recarmi sull’isola e trascorrere lì i giorni necessari a comprenderne l’essenza, alla ricerca magari di vestigia risalenti alla colonizzazione italiana. Soprattutto laddove Luigi Operoso, il padre di Rino, aveva trascorso parte della sua giovinezza.


Mia madre era nata a Premka, un piccolo villaggio della Macedonia occidentale, nel marzo del 1924. (...)             (p. 45)


Mio padre era rimasto a Rodi fino a quando l’Italia non aveva firmato l’armistizio con gli Anglo-Americani. Voltando le spalle all’alleato tedesco. Così le truppe italiane si erano trovate in balìa della furia germanica.

(...)

Mio padre, assieme ad altri 1000, fu destinato alle miniere di cromo in Macedonia. Su un treno speciale, la cui destinazione sembrava essere Zhastov, un sobborgo nei pressi di Skopje.        (pgg. 139-141)


Mia madre, assieme a mia nonna e alle sorelle più piccole, poté far ritorno nella grande casa di Premka soltanto tre anni dopo. Quando, agli inizi del 1944, gli invasori avevano già iniziato a indietreggiare, lasciandosi alle spalle grandi spazi vuoti.                  (pgg. 177)

In Macedonia, in quei mesi, gli eventi si susseguivano improvvisi e veloci.
Gli eserciti andavano e venivano, cambiando le regole al loro passaggio. I nemici di ieri diventavano gli amici di oggi, fino a che non arrivava qualcun altro a sovvertire ancora una volta lo stato delle cose.
Gli Italiani rimasti intrappolati nella sacca balcanica dopo l’8 settembre del 1943 erano in balìa del mutare delle situazioni. Rastrellati dai Tedeschi, odiati dai partigiani che li ritenevano invasori, cercavano rifugio presso la popolazione locale. Mio padre promise a se stesso, in nome dell’amore che provava per mia madre, di non arrendersi. Lo portarono in un campo di raccolta che, per sua fortuna, stava ancora in bilico tra i due eccessi. Non molto lontano da Kičevo, era controllato dalla polizia locale. I controlli non erano di quelli più rigidi. Non c’era voglia di 206 far male a nessuno, in special modo a chi, come lui, era considerato un civile più che un militare. Alcune guardie lo conoscevano bene. Molte di loro avevano frequentato il suo salone. (...)
Restavano, in quella strana forma di prigionia, alcune centinaia di uomini. Quasi tutti italiani, liberati dalle truppe bulgare che, a loro volta, avevano voltato le spalle ai nazisti. Liberati, ma riportati nei campi nell’attesa che qualcuno decidesse se rimpatriarli o meno.
La Macedonia sembrava una nave fracassata da una tempesta alla quale, a fatica, era scampata. Indecisa se issare le vele o fermarsi nel primo porto sicuro. Mentre ormai spiravano già i venti impetuosi di quel “repulisti” che le formazioni partigiane stavano iniziando a mettere in atto.
Tutto ciò per creare il mondo nuovo agognato da Tito. Un mondo che a tanti faceva già paura, perché foriero di vendette iniziatiche.    
                     (p. 205-206)
 

Il lavoro dello scrittore

  • Da dove nasce l'ispirazione di questo libro?  

    Tutto ha avuto origine dall’incontro con una persona, con la quale, nel volgere del tempo, siamo diventati amici. Una persona che mi ha raccontato la storia della sua famiglia, chiedendomi di non farla morire tramandandola. E poi l’incontro con un vecchio greco, a Rodi, che è stato fondamentale per chiudere il cerchio.


  • Cosa ti ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
    L’entusiasmo del narratore e la presenza, nel racconto, di elementi collegabili alla Storia d’Italia. Il parallelismo tra due mondi e il loro definitivo
    incontrarsi.

  • Se dovessi sintetizzare in poche righe il messaggio del tuo libro quale sarebbe?

    La Storia non deve morire. Ognuno di noi ne scrive una, nel proprio passaggio terreno. Sono le storie dei singoli a tessere la tela della storia con la S maiuscola.


  • Chi è il lettore ideale del tuo libro?
    Chi ama leggere romanzi storici e, allo stesso tempo, conoscere altri paesi pensando un giorno di poterli visitare.
 

Una vecchia canzone macedone, degli inizi del 900, poi rifatta e riadattata. Ha fatto da sottofondo alle serate di racconti e scrittura di Rino Operoso e Umberto Li Gioi. 

Che suono ha questo romanzo?