Lina Maria Ugolini

Come grani di melagrana

 
Il mistero dell’amore
è più grande del mistero della morte.
          (Oscar Wilde)

 
Quaranta è numero che attende
e nell’attesa passa il tempo.
"



Leggi e ascolta...


 
L'incipit...

Caramuele alzò il braccio di ramo secco, portò la mano accartocciata come una foglia d’autunno davanti alla bocca, nell’aria di un’ora che più non capiva, indifferente al buio come alla luce. La mia pezza... sussurrò appena, tornando a posare il braccio sull’addome mosso dall’affanno. Contrasse la mano, riuscì solo a stendere un dito. La pezza... ripeté a quel dito e il dito si sforzò di rispondere al corpo al quale apparteneva ancora. Scivolò sul materasso tremando come l’ago di una bussola e si fermò non appena l’unghia agganciò ciò che cercava: un quadratino di lino bucato dalla fame delle tarme. Caramuele lo incastrò tra l’indice e il pollice e lo portò alla bocca per succhiarlo come quando era bambino.
Non aspettava più il giorno in cui la morte lo avrebbe liberato da quel corpo troppo antico.


(...)
Continuò a pregare ogni giorno Doralina, in apprensione per i suoi figli e per tutti i bambini, fino a quando Tondino uccise il maiale, il più grosso verro nato tra le quaranta case dalle cui carni si fecero collane di salumi da appendere al soffitto insieme ai caci. Doralina svenne quando l’animale si liberò dalla presa degli uomini. Non era mai accaduto in anni e anni in cui quel rito si consumava nel giubilo di una festa, sempre in inverno per permettere alle carni insaccate d’essere conservate senza malura. Il verro scappò per le scale concitato nel grugnito, braccato da Tondino che lo inseguì e lo sgozzò comunque nel cortile della prima fontana, vicino all’osteria di Sortino dove c’erano Panfilo, Luzio e pure Cesidio, che rideva e girava veloce su se stesso alzando la testa verso il cielo e poi si fermava ridendo di più perché le case e le cose che vedeva continuavano a girare ancora: la fontana, Tondino, il maiale con la gola aperta, il catino messo sotto a raccogliere il sangue caldo della bestia passato a Granino e poi a Requilda che l’avrebbe fatto dolce mettendoci dentro le spezie.
Doralina svenne perché il grido del maiale le parve quello di un fanciullo.
Quando per Cesidio tutto finì di girare Doralina aprì gli occhi. Caramuele le stava accanto per snodarle il fazzoletto dal collo.
Verranno... sussurrò lei con il terrore negli occhi.
Fu un taglio quella parola detta da Doralina a fil di labbra, dettò un confine tra il bene e il male. Rimase tra le quaranta case quel sussurro nel tempo di quaranta giorni che nessuno mai contò, trascorsi i quali niente sarebbe stato come prima. 
                     (pp. 130-131)

(...)
C’è un tempo per tutto, diceva il libro poggiato sull’altare, baciato da padre Erpinio fino a quando i suoi passi varcarono la soglia della chiesa di San Rocco.
Un tempo per seminare e di semi se ne erano sparsi tanti tra le terre degli Appennini, nei campi curati dalla zappa di Granino che portava quel nome a ragione, e quei semi avevano dato il loro raccolto, spighe di grano, d’orzo, la frutta, gli ortaggi dell’orto.
Un tempo per morire, prendere la via dei cipressi del Camposanto e finire nelle casse che Caramuele aveva sempre saputo inchiodare, seppellire nella terra sotto le croci.
Un tempo per amare, conoscere un amore domestico o un amore impossibile, un tempo per odiare chi aveva distrutto entrambi.
Un tempo per parlare poco, un tempo per tacere tanto.
Un tempo per cercare chi non c’era più, per perdere se stessi nel dolore, per piangere e per ballare, solo come ballava Cesidio, per pura follia.
Un tempo per gettare sassi ai giganti come faceva il piccolo Cecco con la fionda. Raccoglierli tutti e perderli nel fiume con un tonfo, senza riaverli più, il tempo dei sassi trovati, dei sassi perduti.
Un tempo per abbracciare i suoi figli, per slacciare quelle braccia e arrendersi con le mani alzate. Il tempo delle gonne cucite, delle gonne stracciate, il tempo delle quaranta cose mosse con ostinazione, pazienza, monotonia, fatica.
A ciascuna il proprio tempo, un soffio per essere nel mondo, un soffio per abbandonarlo.                     
(pp. 145-146)


(...)
Quando le donne sentirono arrivare il passo dei soldati alzarono le gonne per nascondere i bambini, tra la lana e l’odore degli asparagi. E quelle gonne si gonfiarono toccandosi, unendosi come pagnotte messe a lievitare. Si gonfiò anche quella di Canforina che non era mai stata madre, fece entrare Giacinta e Michela che non erano mai cresciute, mentre Luzio piccolo e Bertino restarono sotto Cannella. Si sollevò la gonna di Doralina coprendo Duccio e Pallino aggrappati ciascuno ad una gamba premendo la bocca sulla lana delle calze. Il passo si fece via via più vicino e i tedeschi arrivarono. Buttarono giù a calci la porta della sagrestia con i fucili spianati. Ordinarono di uscire fuori. Le donne mossero piccoli passi battendo gli zoccoli, tenendo giù le gonne, aspettando che i bambini nascosti strisciassero con loro. Sentirono urlare i figli di quelle 151 madri oltre la coltre della stoffa parole di una lingua di ghiaccio, tra l’odore del vino delle botti di Sortino.                     (pp. 150-151)


 

Il lavoro dello scrittore

  • Da dove nasce l'ispirazione di questo libro?  
    La scrittura è nata qualche anno fa quando viaggiavo in corriera da Roma per raggiungere il Gargano (insegnavo la mia materia, Poesia per musica e drammaturgia musicale al Conservatorio Umberto Giordano nella sede di Rodi). Passando dall’Abruzzo mi colpì l’immagine di un paese arroccato sulla roccia, il vicino sentiero costeggiato di cipressi che portava al Camposanto. Ho subito immaginato, il vivere e il morire di una piccola comunità sconosciuta e isolata dal resto della civiltà. L’Abruzzo, terra di poesia, è costellato di paeselli abbandonati, di borghi impervi.Leggendo ho trovato notizia di Pietransieri, di un eccidio poco conosciuto compiuto dai soldati tedeschi, ai danni di donne, vecchi e bambini, in ritirata nel ’43 lungo la linea Gustav. Ho traslato la mia immagine in quel luogo cercando di costruire una forma narrativa plausibile con l’ambiente e l’avvenuta tragedia. Considero quest’aspetto di ricerca creativa fondamentale nel mio lavoro. Ogni storia che nasce deve possedere una voce unica, necessaria e autentica.

  • Cosa ti ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
    Il racconto ha subito funzionato non appena si è delineato il personaggio di Caramuele, l’unico vecchio a restare vivo in un paese deserto, tra case arroccate alla roccia come grani di melagrana. Caramuele non è ancora morto, evoca ricordi immaginando di correggere gli errori di una vita passata nel silenzio, privata dell’affetto materno. Caramuele succhia una pezza di lino bucata dalla fame delle tarme e attende in un tempo sospeso.

  • Se dovessi sintetizzare in poche righe il messaggio del tuo libro quale sarebbe?

    Quello di una scrittura profonda che scava nell’uomo e nell’umano per cercare di comprendere le ragioni arcane dei sentimenti, del male e del bene, della morte e dell’amore, dell’esistenza di chi ha vissuto sulla terra, come scriveva Manzoni, senza lasciare traccia.


  • Chi è il lettore ideale del tuo libro?

    Un lettore fine che sappia abbandonarsi e avere fiducia nel cuore della scrittura. Tale finezza comporta fiuto ed eleganza, la volontà, il bisogno di cercare e scovare un libro con una scala per sbirciare tra gli scaffali più alti di una libreria. I libri sono come i tesori, occorre sentirsi cacciatori.

  •  

    Che suono ha questo romanzo?

    La scrittura di Come grani di melagrana è soprattutto una scrittura musicale che risente dell’affabulazione orale. È organizzata secondo un ritmo, delle immagini, dei suoni. L’intero paese si comporta come la cassa di risonanza di uno strumento. 

    Per l’occasione ho suggerito a una giovane cantautrice, Anna Al Contrario, la composizione di una canzone tenendo conto della qualità poetica presente nel romanzo. Il titolo è Quaranta case, quaranta coseleitmotiv, della scrittura.


    (...) quattro fontane e un pozzo di pietra
    profondo e nero, per metterci i peccati.
    Su Chiaravita sbocciavan le viole,
    le salutava con un sorriso,
    la bambina tra l'erba e la brina 
    scriveva tra le pietre. (...)