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Caramuele alzò il braccio di ramo secco, portò la mano accartocciata come una foglia d’autunno davanti alla bocca, nell’aria di un’ora che più non capiva, indifferente al buio come alla luce. La mia pezza... sussurrò appena, tornando a posare il braccio sull’addome mosso dall’affanno. Contrasse la mano, riuscì solo a stendere un dito. La pezza... ripeté a quel dito e il dito si sforzò di rispondere al corpo al quale apparteneva ancora. Scivolò sul materasso tremando come l’ago di una bussola e si fermò non appena l’unghia agganciò ciò che cercava: un quadratino di lino bucato dalla fame delle tarme. Caramuele lo incastrò tra l’indice e il pollice e lo portò alla bocca per succhiarlo come quando era bambino.
(...)
C’è un tempo per tutto, diceva il libro poggiato sull’altare, baciato da
padre Erpinio fino a quando i suoi passi varcarono la soglia della
chiesa di San Rocco.
Un tempo per seminare e di semi se ne erano sparsi tanti tra
le terre degli Appennini, nei campi curati dalla zappa di Granino
che portava quel nome a ragione, e quei semi avevano dato il loro
raccolto, spighe di grano, d’orzo, la frutta, gli ortaggi dell’orto.
Un tempo per morire, prendere la via dei cipressi del Camposanto e finire nelle casse che Caramuele aveva sempre saputo
inchiodare, seppellire nella terra sotto le croci.
Un tempo per amare, conoscere un amore domestico o un
amore impossibile, un tempo per odiare chi aveva distrutto
entrambi.
Un tempo per parlare poco, un tempo per tacere tanto.
Un tempo per cercare chi non c’era più, per perdere se stessi
nel dolore, per piangere e per ballare, solo come ballava Cesidio,
per pura follia.
Un tempo per gettare sassi ai giganti come faceva il piccolo
Cecco con la fionda. Raccoglierli tutti e perderli nel fiume con
un tonfo, senza riaverli più, il tempo dei sassi trovati, dei sassi
perduti.
Un tempo per abbracciare i suoi figli, per slacciare quelle
braccia e arrendersi con le mani alzate. Il tempo delle gonne cucite, delle gonne stracciate, il tempo delle quaranta cose mosse
con ostinazione, pazienza, monotonia, fatica.
A ciascuna il proprio tempo, un soffio per essere nel mondo,
un soffio per abbandonarlo. (pp. 145-146)
(...)
Quando le donne sentirono arrivare il passo dei soldati alzarono le gonne per nascondere i bambini, tra la lana e l’odore
degli asparagi. E quelle gonne si gonfiarono toccandosi, unendosi come pagnotte messe a lievitare. Si gonfiò anche quella di
Canforina che non era mai stata madre, fece entrare Giacinta
e Michela che non erano mai cresciute, mentre Luzio piccolo
e Bertino restarono sotto Cannella. Si sollevò la gonna di Doralina coprendo Duccio e Pallino aggrappati ciascuno ad una
gamba premendo la bocca sulla lana delle calze.
Il passo si fece via via più vicino e i tedeschi arrivarono. Buttarono giù a calci la porta della sagrestia con i fucili spianati.
Ordinarono di uscire fuori. Le donne mossero piccoli passi battendo gli zoccoli, tenendo giù le gonne, aspettando che i bambini nascosti strisciassero con loro. Sentirono urlare i figli di quelle
151
madri oltre la coltre della stoffa parole di una lingua di ghiaccio,
tra l’odore del vino delle botti di Sortino.
(pp. 150-151)
Quello di una scrittura profonda che scava nell’uomo e nell’umano per cercare di comprendere le ragioni arcane dei sentimenti, del male e del bene, della morte e dell’amore, dell’esistenza di chi ha vissuto sulla terra, come scriveva Manzoni, senza lasciare traccia.
Un lettore fine che sappia abbandonarsi e avere fiducia nel cuore della scrittura. Tale finezza comporta fiuto ed eleganza, la volontà, il bisogno di cercare e scovare un libro con una scala per sbirciare tra gli scaffali più alti di una libreria. I libri sono come i tesori, occorre sentirsi cacciatori.
La scrittura di Come grani di melagrana è soprattutto una scrittura musicale che risente dell’affabulazione orale. È organizzata secondo un ritmo, delle immagini, dei suoni. L’intero paese si comporta come la cassa di risonanza di uno strumento.
Per l’occasione ho suggerito a una giovane cantautrice, Anna Al Contrario, la composizione di una canzone tenendo conto della qualità poetica presente nel romanzo. Il titolo è Quaranta case, quaranta cose, leitmotiv, della scrittura.
Il romanzo Come grani di melagrana narra, tra le sue pagine poetiche, anche l’orrore di una tragedia che fu
vera, quella di un eccidio dimenticato avvenuto nel bosco di Limmari, a Pietransieri, Roccaraso, in Abruzzo nel
novembre del ’43, perpetrato ai danni di donne, vecchi e bambini dai Tedeschi
in ritirata lungo la linea Gustav.