Rifrazioni dell’Altro: problemi di percezione nell’antico e nel contemporaneo - PUNTATA 2

I testi proposti in questo spazio ci accompagnano tra la letteratura antica e le riflessioni poetiche contemporanee che emergono dal dialogo tra due componenti del mondo in cui viviamo: l’una visibile, che è la dimensione presente, l’altra scomparsa all’occhio empirico, ancorata nel passato ma ugualmente fattore costitutivo di quella evoluzione che ha prodotto la realtà in cui attuiamo oggi le nostre azioni e i nostri pensieri.Quanto segue è la trasposizione in forma scritta di un incontro di lettura realizzato a settembre 2021 dall’Associazione Rodopis legata a Edizioni Saecula da anni di collaborazione.Queste letture ci portano a contatto diretto con il mondo antico e vogliono restituire la sua attualità, a partire da un tema che richiede attenzione: come si forma e si esplicita il rapporto con ciò che è percepito come Altro, rispetto ad un gruppo o ad un individuo. I piani su cui si muove il discorso sono diversi: si può riflettere sulla diversità tra gruppi immaginati come internamente omogenei, o su come in ogni popolo, società, aggregazione si trovi sempre un’area, infinitamente frazionabile, per ciò che è diverso. Si tratta di confini sfaccettati, variabili a seconda della prospettiva di ciascun individuo, che alla fine del nostro percorso riemergono nell’immaginario che anima anche gli autori dei nostri giorni. 


Aberrazioni dall’Oriente e stereotipi in Giovenale,
Satira 3, vv. 58-125 passim

Il protagonista della terza satira di Giovenale è Umbricio, amico del poeta, che dichiara di volersene andare da Roma, una metropoli ormai troppo caotica, troppo affollata di quegli stranieri orientali (Graeculi) che egli aborre, per i motivi che illustra nei versi seguenti, i quali fanno trasparire un atteggiamento conservatore e xenofobo proprio dello stesso Giovenale. 

«Quale sia la razza che ora è la più gradita ai nostri ricchi, e chi io voglia fuggire più di ogni altro, mi affretto a dirlo, non mi terrà alcuna vergogna. Non posso tollerare, Quiriti, una Roma greca. E d’altra parte, in mezzo a questa feccia, quanti sono i veri achei? Già da tempo il sirio Oronte si è riversato nel Tevere, portando con sé lingua e costumi, arpe oblique insieme a flautiste, e cembali esotici, e fanciulle costrette a prostituirsi nel circo. Andate, voi che apprezzate le prostitute barbare dalla mitra dipinta. Quel tuo contadinotto, o Quirino, si è conciato come un parassita che corre al pranzo, e al collo unto porta medaglie da atleta. Lasciata l’alta Sicione questo, Amidone quest’altro, e quest’altro ancora Andro, e quello Samo, e questo Tralle o Alabanda, si dirigono verso l’Esquilino e verso il colle che trae il nome dal vimine, per diventare anima di ricche case e poi farsene signori. Ingegno svelto, temerarietà depravata, eloquenza pronta e più torrenziale di quella di Iseo:  di’ pure cosa credi che sia ciascuno di loro. Con sé ha portato per noi l’uomo che vuoi: il grammatico, il retore, il geometra, il pittore, il massaggiatore, l’augure, il funambolo, il medico, il mago, tutto sa fare questo grecuzzo affamato; ordinerai di andare fino in cielo? Ci andrà! […] E che dire del fatto che questa razza, abilissima nell’adulazione, sia pronta a lodare l’eloquenza di un ignorante e la bellezza del deforme patrono, a paragonare il lungo collo di uno storpio alla cervice di un Ercole che tiene Anteo sollevato da terra, a magnificare una vocetta stridula, peggio della quale non crepita nemmeno il legittimo consorte da cui la gallina si fa beccare? Certo, queste stesse cose possiamo lodarle anche noi, ma è a loro che si dà retta. O forse c’è commediante migliore nella parte di Taide, o della moglie, o di una Doride senza mantellina? […] ma non credere che lì tra loro sia considerato straordinario Antioco, o Stratocle, o Demetrio col molle Emo: tutto il popolo è fatto di commedianti. Tu ridi, ed ecco che si fa scuotere da una più forte sghignazzata; piange, se solo vede le lacrime del patrono, ma senza provar dolore; se di inverno cerchi un fuocherello, lui tira fuori il mantello; se solo dici “ho caldo”, lui suda. Insomma, non siamo pari: vale di più chi può sempre, ogni giorno e ogni notte, scegliersi l’espressione in base all’aspetto degli altri, pronto ad applaudire e a lodare se il patrono fa un bel rutto, se piscia diritto, se il boccale d’oro, vuotato fino al fondo, risuona. E poi non c’è niente che sia sacro, niente che sia al sicuro dal suo inguine, non la madre di famiglia, non la figlia vergine, e nemmeno il fidanzato ancora imberbe, nemmeno il figlio ancora ingenuo. E se non trova niente di tutto ciò, sdraia la nonna dell’amico. […] Non c’è posto per un romano qui, dove regna un Protogene, un Difilo o un Ermarco, che per un difetto della sua razza non condivide mai un amico, ma lo tiene tutto per sé. Appena riesce instillare in un orecchio disponibile una goccia di quel veleno che gli viene dalla natura e dalla patria, io vengo allontanato dalla soglia, e il tempo speso in un lungo servizio se ne va in fumo; da nessun’altra parte la perdita di un cliente può valere meno.»

(trad. di B. Santorelli)

Selezione e commento a cura di Anna Busetto. Associazione Culturale Rodopis.