Rifrazioni dell’Altro: problemi di percezione nell’antico e nel contemporaneo - PUNTATA 1

I testi proposti in questo spazio ci accompagnano tra la letteratura antica e le riflessioni poetiche contemporanee che emergono dal dialogo tra due componenti del mondo in cui viviamo: l’una visibile, che è la dimensione presente, l’altra scomparsa all’occhio empirico, ancorata nel passato ma ugualmente fattore costitutivo di quella evoluzione che ha prodotto la realtà in cui attuiamo oggi le nostre azioni e i nostri pensieri.
Quanto segue è la trasposizione in forma scritta di un incontro di lettura realizzato a settembre 2021 dall’Associazione Rodopis legata a Edizioni Saecula da anni di collaborazione.
Queste letture ci portano a contatto diretto con il mondo antico e vogliono restituire la sua attualità, a partire da un tema che richiede attenzione: come si forma e si esplicita il rapporto con ciò che è percepito come Altro, rispetto ad un gruppo o ad un individuo. I piani su cui si muove il discorso sono diversi: si può riflettere sulla diversità tra gruppi immaginati come internamente omogenei, o su come in ogni popolo, società, aggregazione si trovi sempre un’area, infinitamente frazionabile, per ciò che è diverso. Si tratta di confini sfaccettati, variabili a seconda della prospettiva di ciascun individuo, che alla fine del nostro percorso riemergono nell’immaginario che anima anche gli autori dei nostri giorni.


Tacito e la Germania

La questione del rapporto con l’Altro, con l’Alterità, può essere letto nel mondo antico in molti modi, tra i quali, quello della relazione tra i Romani e il loro nemico storico, le popolazioni germaniche.
È molto utile, in questo senso, riprendere e commentare qualche brano del
De origine et situ Germanorum, conosciuto più comunemente come la Germania, composto da Publio o Gaio Cornelio Tacito, considerato dai moderni il più grande storico dell’antichità romana. Anche se le opere storiche e geografiche che ci sono pervenute dall’antichità contengono molte etnografie, questa opera è l’unica monografia a carattere etnografico ad essere giunta fino ai nostri giorni. Gli stessi studiosi tedeschi hanno sempre avuto un rapporto particolare con quest’opera. Theodor Mommsen, ad esempio, scriveva:

«Noi possediamo ciò che nessun altro popolo possiede: un quadro, tracciato molto prima della nostra civiltà letteraria e venuto a noi da una cultura più antica, delle caratteristiche dei Germani di allora. È come se un Fenicio ci avesse descritto la Grecia al tempo in cui veniva edificato il palazzo reale di Tirinto o come se un Greco di Cuma ci informasse della Roma delle Dodici Tavole. Non si può biasimare il fatto che la Germania di Tacito non venga considerata dai nostri studiosi con lo stesso freddo distacco con cui si collocano di fronte al altre tradizioni: noi non ammettiamo volentieri che anche questo impareggiabile gioiello presenta delle imperfezioni…».
(Traduzione in italiano tratta da La vita di Agricola; La Germania, Tacito, con introduzione e commento di Luciano Lenaz e traduzione di Bianca Ceva, Milano 2010¹⁴, p. 57)

Tacito afferma innanzitutto:
«Per quanto riguarda i Germani io sono portato a credere che essi siano originari della regione e che non si siano mai mescolati con altre genti» (Paragrafo 2)

In questo passo vediamo un tema sul quale lo storico romano insiste molto, quello della purezza etnica dei popoli germanici.

Poi Tacito continua:

«D’altra parte, chi, anche senza tener conto del pericolo di un mare ignoto e burrascoso, lasciando l’Asia, o l’Africa o l’Italia, andrebbe mai verso la Germania, terra dal paesaggio desolato, dal clima rigido, piena di tristezza a vedersi e ad abitarsi, salvo per coloro che vi sono nati?». (2)

E ancora:
«Da parte mia, seguo l’opinione di coloro che ritengono che le popolazioni della Germania non si siano mai mescolate congiungendosi ad altre genti, e che la razza loro rimase pura conservando caratteri propri». (4)

Successivamente, incontriamo un altro topos tipico della visione romana dei Germani, quello della semplicità dei costumi:
«I Germani non fanno alcuno sfoggio di eleganza; si limitano a ornare gli scudi con sceltissimi colori. Pochi fra essi portano la corazza, appena uno o due hanno l’elmo di metallo o quello di cuoio». (6)

Interessante è, poi, la descrizione della condizione femminile presso i popoli germanici:
«La prigionia delle donne temono maggiormente che la propria, tanto che è più efficace il vincolo di fedeltà ai patti presso quelle città, alle quali si imponga fra gli altri ostaggi la consegna di fanciulle nobili. Nelle donne, infatti, i Germani vedono qualche cosa di santo e di profetico e non disprezzano i loro consigli, né trascurano i loro responsi». (8)

Un altro elemento curioso è l’utilizzo delle armi che fanno queste popolazioni:
«I Germani, poi, non trattano alcun affare né pubblico né privato senza essere armati; ma è costume che nessuno porti armi prima che la “tribù” non abbia riconosciuto che egli sia in grado di maneggiarle. Allora nella stessa assemblea o uno dei capi, o il padre o uno dei parenti, provvede della lancia e dello scudo il giovane; far questo è presso di loro come consegnare la toga, è il primo segno di onore della gioventù; prima di questa cerimonia i giovani si considerano parte della famiglia, dopo di essa sono ritenuti parte dello Stato». (13)

In poche parole, i Germani non si separano mai dalle loro armi e il riconoscimento della raggiunta maggiore età avviene attraverso la consegna di lancia e scudo, allo stesso modo di come è per i Romani la consegna della toga uirilis. 

Ancora, qual è l’inclinazione dei Germani verso la guerra? Secondo Tacito:

«Se la tribù presso la quale sono nati si snerva nell’ozio di una lunga pace, molti giovani della nobiltà vanno spontaneamente presso quelle popolazioni che in quel momento sono impegnate in qualche guerra, perché la razza germanica è insofferente di pace». (14)

Successivamente, è ripreso il tema della semplicità di quei popoli:
«Tutti sanno che le popolazioni della Germania non abitano alcuna città […]. Non conoscono neppure l’uso delle pietre da costruzione o quello delle tegole; per ogni necessità si servono di legno grezzo privo di qualsiasi piacevole aspetto». (16)

Tacito, inoltre, apprezzava profondamente uno degli aspetti più caratteristici dei popoli germanici, la monogamia:
«I rapporti coniugali sono austeri; né v’è alcun aspetto dei loro costumi che si possa lodare più di questo. Ai Germani, infatti, quasi soli fra i barbari, basta un’unica moglie». (18)

Un’altra caratteristica di questi popoli è l’enorme importanza che essi assegnano all’accoglienza:
«Nessun’altra “nazione” più dei Germani è larga nell’apprestare conviti e nell’esercitare l’ospitalità: è per essi empietà l’escludere una persona dalla propria casa; ciascuno accoglie l’ospite con tavola imbandita, secondo le sue possibilità». (21)

Ancora:
«Bevono un liquido, ricavato dall’orzo e dal frumento, che fatto fermentare assomiglia al vino».(23)

Si tratta ovviamente della birra, non particolarmente apprezzata dai Greci e dai Romani, anche se i Germani non usavano ancora il luppolo.
Giova ricordare che la birra era conosciuta già dalla più remota antichità in Mesopotamia e in Egitto. Compare in diversi “articoli” del codice di Hammurabi, e sappiamo, per esempio, che chi annacquava la birra era condannato a morte per 
annegamento.

Un altro aspetto che lo storico romano apprezza della cultura germanica è il disinteresse per il denaro:
«Il prestar denaro e accrescerne il frutto fino a praticare l’usura, è ignoto presso i Germani, e, perciò, se ne astengono più che se fosse vietato». (26)

Tacito sapeva bene che il punto debole dei popoli germanici era la discordia presente fra le  diverse stirpi e non nasconde la sua speranza che la situazione resti così com’era. Da notare, poi, che lo storico romano tradisce anche un certo godimento per questa circostanza:
«Ora si narra che i Camavi e gli Angrivari siano immigrati nel territorio dei Brutteri, dopo averli scacciati e totalmente annientati, in lega con le altre genti vicine, sia per l’odio causato dall’arroganza di quelli, sia perché attratti dal miraggio della preda, sia per una certa benignità degli dei in favore nostro. Infatti, gli dei non ci tolsero nemmeno lo spettacolo della battaglia. Dei Brutteri caddero più di sessantamila [cifra indubbiamente esagerata], non in virtù delle armi e dei dardi romani, ma, cosa veramente magnifica, caddero per offrire diletto al nostro sguardo. Oh, preghiamo che rimanga e si conservi presso i popoli stranieri, se non l’amore per noi, almeno l’odio fra di loro, dal momento che, incombendo sull’impero la minaccia dei fati, nulla ormai di più prezioso la fortuna può procurarci che la discordia dei nostri nemici fra loro». (33)

Possiamo vedere, infine, come secondo lo storico romano fossero i Germani, e non altre popolazioni come i Parti, che pure avevano inflitto dure sconfitte ai Romani, a costituire il vero pericolo per l’Impero:
«Prossimi all’oceano, occupano quella stessa penisola della Germania i Cimbri, popolo piccolo ora, ma grande per gloria. […] Roma esisteva da seicentotrentanove anni, quando per la prima volta, sotto il consolato di Cecilio Metello e di Papirio Carbone, si ebbe notizia delle gesta militari dei Cimbri. Se calcoliamo da quel tempo fino al secondo consolato dell’imperatore Traiano, sommiamo pressappoco duecentodieci anni: da tanto tempo stiamo vincendo la Germania! Durante un così lungo spazio di tempo, vi furono molte reciproche sconfitte. Non i Sanniti, non i Cartaginesi, non la Spagna, non la Gallia e neppure i Parti ci diedero così spesso aspri ammonimenti, poiché la libertà dei Germani è più indomabile del regno di Arsace». (37)

In effetti, sapendo oggi che la Germania transrenana, più o meno corrispondente all’odierna Germania, fu una vera e propria provincia dell’Impero romano per circa sedici anni, ci si può chiedere che cosa sarebbe successo se non fosse sopraggiunta la clades variana del 9 d.C., che provocò l’arretramento definitivo del limes occidentale sul Reno e la perdita definitiva della provincia. Per noi può essere solo oggetto di speculazione, ma c’è chi ci ha riflettuto. Secondo il poeta Heinrich Heine:
«Se Herrmann [Arminio] non avesse vinto la battaglia
con i suoi biondi compagni,
non sarebbe più esistita la libertà tedesca,
noi saremmo diventati romani.
Nella nostra patria regnerebbero ora
la lingua e i costumi romani….»

(Traduzione in italiano tratta da Werner Eck, Augusto e la Germania: come nasce una provincia, «Storicamente», 11 (2015), pp. 25-26)

Selezione e commento a cura di Francesco Muraca. Associazione Culturale Rodopis