Come grani di melagrana, recensione di Sonia M. Patania

La vicenda trattata da Lina Maria Ugolini in Come grani di melagrana mi ha proiettata all’epoca dei miei nonni ancora giovani e di mio padre bambino, e nello spazio di un paesino abruzzese - in una dimensione fatta di gesti e abitudini, arnesi e ritualità - che conosco solo attraverso il cinema e, per l’appunto, la letteratura. È proprio questo, il potere evocativo di certi scrittori. Narrare consuetudini decadute come quella di far dormire i bimbi nei cassetti aperti dei comò, o raccontare il confronto frequente, se non quotidiano, con animali che tanti, nel corso della vita attuale, hanno incontrato solo una o due volte, e riuscire - non solo a fare visualizzare ai lettori bimbi nei cassetti e a mettere sul loro cammino volpi, cervi, cinghiali, lupi e ghiri - ma a fare avvertire questo e tanto altro a loro da sempre estraneo come qualcosa di strettamente connesso al proprio vissuto, a loro stessi.
L’origine delle vicende raccontate in Come grani di melagrana - che diventa principio informatore del romanzo e lo attraversa costantemente pur essendo svelato, in tutta la sua potenza tragica, solo alla fine - è una “strage dimenticata”. Un eccidio compiuto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, all’indomani della firma dell’armistizio di Cassibile, su cui a scuola o nei contesti commemorativi raramente ci si sofferma, per dare spazio ad altre atrocità di guerra ritenute più emblematiche, più rappresentative, più eclatanti. E ha scelto di raccontare proprio questa strage, Lina Maria Ugolini, attraverso il racconto del quotidiano nella comunità che ne è stata vittima, immaginandone alcuni dei protagonisti e dando vita a una storia corale tanto articolata e complessa quanto avvincente ed emozionante. Realizzando, così, un romanzo civile. Che ha caratteristiche tutte sue, però, perché non si sviluppa mediante quel tipo di asciutta scrittura di tipo giornalistico che, il più delle volte, contraddistingue la narrativa d’inchiesta; ma tramite quell’eloquio lirico, ritmicamente scandito con grande accuratezza, che è suo proprio e che molto spesso sconfina nella poesia e, sempre, nella musicalità. In Come grani di melagrana, la funzione morale e civile viene inscritta in un organismo pulsante in cui, di Lina Maria Ugolini, confluiscono - oltre alla familiarità con il linguaggio poetico e musicale, nonché con quello drammaturgico - una creatività che dà vita a una grande ricchezza di immagini. Talmente vivide, che il romanzo si presterebbe benissimo a una trasposizione cinematografica. Del resto, fin dalle sue prime pagine, è inevitabile pensare a L’albero degli zoccoli di Olmi, a La notte di San Lorenzo dei Taviani. E in qualche punto in cui la storia si fa tetra - come nella scena in cui un bimbo appena nato malformato viene acciuffato dal padre che se ne disfa gettandolo “in un solco della terra, fra le bucce delle fave” - anche a Novecento di Bertolucci.
I personaggi di Come grani di melagrana sono insieme realistici e fiabeschi. I loro nomi di battesimo rimandano ai loro tratti caratteriali o ai loro mestieri: Granino impasta e cuoce il pane, Orante è un affabulatore, Vallorino possiede terreni che si estendono fino alla valle. Le doppie attività di alcuni di loro raccontano un’antica realtà paesana, ristretta e povera di mezzi economici e ricreativi, in cui certuni s’industriano a svolgere più di un mestiere o ad affiancare al proprio lavoro un’attività artigianale: così, Lina Maria Ugolini narra di un panettiere che è anche vasaio, di un pastore che fa pure il cestaio, di un contadino che, nelle occasioni festose, diventa suonatore di organetto. 
Quelli che mi sembrano particolarmente intensi, però, sono i personaggi femminili. L’autrice descrive efficacemente tutta una stirpe di donne in un’unica frase: “Seppero tessere e cucire, raccontare fiabe e far nascere bambini”. E assegna a varie di loro una spiccata attitudine alla chiaroveggenza, facendole in grado di presagire sia gli avvenimenti felici che quelli funesti. Via via che il romanzo si dipana, poi, alcune di queste donne assumono connotazioni mitiche. Fra queste, spiccano Beppa e Irma, simbolo di una forza femminile arcaica e magica l’una, quanto l’altra del futuro delle donne padrone di se stesse. Beppa, vedova di un contadino reclutato suo malgrado durante la Prima Guerra Mondiale e morto durante il conflitto, indossa gli scarponi militari del marito “per compagnia” e, durante le ore di riposo, siede sulla sua sedia preferita fumando la pipa con lo sguardo agli Appennini. È lei che impartisce disposizioni circa la modalità futura con cui essere portata al cimitero, da morta: seduta sulla sua sedia e con in bocca l’immancabile pipa, per di più accesa. L’altra che, capitolo dopo capitolo, acquisisce un’aura mitica, è Irma la Ribelle: partigiana della Brigata Maiella, è quella che, prima di darsi alla macchia, rinuncia ad accorciarsi le trecce da sola - come fanno, quando serve, tutte le sue compaesane - e sceglie di avvalersi segretamente del servizio del barbiere al quale chiede un taglio di capelli maschile. Irma è anche colei che indossa i pantaloni (unica a farlo, a quel tempo, tra le donne di quelle zone) e che appare in sogno alla nipotina raccontandole di vivere nella cavità di un pino secolare. Alla fanciullina che la ritiene capace di conoscere passato, presente e futuro, svela come “capire quello che non si può capire”.
Il destino dei protagonisti di questa storia corale - come quello delle vittime della strage dimenticata a cui il romanzo s’ispira - è un destino tragico perché le loro “quaranta case e quaranta cose” sono dislocate dove risulta sgradito alle truppe di occupazione tedesche: in corrispondenza della Linea Gustav, quella barriera naturale fortificata dalle forze militari naziste che divide in due l’Italia lasciando il Paese alla Repubblica Sociale Italiana e ai tedeschi da un lato, a Nord, e dall’altro, a Sud, all’avanzata verso Roma iniziata dagli alleati americani e inglesi dopo lo Sbarco in Sicilia. Dell’eccidio a cui l’autrice si è ispirata non direi nulla di più a chi non ha ancora letto il romanzo: credo che possa avere senso leggerlo accogliendo lo speciale pathos che riserva a chi non sa esattamente dove vada a parare. Posso dire che, per ciò che mi riguarda, la sua funzione civile sia andata a termine quando, dopo la lettura, ho avvertito la necessità di cercare informazioni sui fatti, tornare sui libri di storia e regalarmi la visione di un commovente documentario realizzato al riguardo. E sospetto che Come grani di melagrana possa produrre lo stesso effetto in altri lettori.
A tutti gli abitanti delle quaranta case, Lina Maria Ugolini fa esprimere un profondo senso di estraneità alle logiche della guerra. Il padre del falegname Caramuele, anch’egli di nome Caramuele e anch’egli falegname, prima di morire si dichiara “disertore onesto”, perché la guerra - in questo caso la Grande Guerra - “non può appartenere ai pastori e ai falegnami”. E durante il Secondo Conflitto, gli abitanti delle quaranta case appaiono, di fronte a ciò che la guerra comporta, non solo spaventati, ma anche confusi e stanchi, tanto da rievocarmi una considerazione di Cesira, la ciociara del romanzo di Alberto Moravia: “Per noi bisogna che qualcuno vince sul serio, così la guerra finisce”. D’altro canto, chi, in Come grani di melagrana, prende posizione di fronte alla Camicie Nere - posizione tenuta per sé, ma che assesta una svolta alla sua vita e, per certi versi, costituisce un ritorno indietro e una rinuncia al soddisfare la propria curiosità e la propria voglia di nuovo - è Orante. Che lascia l’Abruzzo da “villano” per andare a Roma e diventare barbiere, ma che alla prima grande parata militare si licenzia e torna al suo paese osservando di aver “visto abbastanza”.
Oltre che dimostrare (ancora una volta) quanto la sua autrice sia padrona della scrittura e della costruzione degli intrecci narrativi, il romanzo evidenzia quanto sappia rendere i tratti caratteriali e psicologici dei personaggi. A nuova conferma che il tutto risieda già nella parte, Lina Maria Ugolini riesce a rendere una personalità e una vita in poche parole (“Solo Gentilina morì ragazza. Spirò dopo il parto con un sorriso, perché aveva un carattere dolce che non faceva mai caso al dolore”). Ma trovo che sia Chiaravita il personaggio al quale viene assegnata una speciale dotazione di qualità che lo destinano a una grande crescita che, peraltro, si fa simbolo dell’emancipazione femminile avviatasi, nel nostro Paese, a partire dal Dopoguerra. Di tutti i suoi pregi e le sue grazie, mi sembra che la connotazione più interessante di Chiaravita bambina sia l’attitudine al dare nome alle cose, attitudine che diventerà, prima, esigenza di scrivere e, poi, mestiere. Come Orante, Chiaravita vuole esplorare, conoscere, apprendere, e per riuscirci è pronta a partire; ma lei non tornerà indietro, si spingerà oltre le sue origini e costruirà il suo futuro di donna di una nuova epoca. Lo farà attraverso l’istruzione e la scrittura: è così che Lina Maria Ugolini racconta il valore della cultura come necessario strumento di emancipazione personale e sociale
Prima di iniziare la lettura del romanzo, mi aveva colpito la citazione di Oscar Wilde in esergo, “Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte”. Mi ero chiesta come mai l’autrice avesse scelto di citare uno scrittore che non riuscivo ad associare alle atmosfere rurali abbruzzesi…
Ma poi, durante la lettura, ho osservato, in particolare, due vicende che raccontano altrettante forme d’amore. L’una vede protagonisti Splendora e Panfilo, l’altra riguarda Chiaravita e Caramuele. Tanto la prima è intrisa di sensualità e passione gioiose - che contrasteranno amaramente, da un certo punto in poi, con la piega che i fatti prenderanno nel corso del racconto - tanto nella seconda il sentimento, seppur forte, viene domato, espresso tramite forme delicate che fanno il paio con la sua segretezza. Non voglio anticipare altro, ai prossimi lettori del romanzo, se non che i sentimenti di Caramuele per Chiaravita vi abbiano un ruolo nodale. E che, al termine della lettura, mi è stato chiaro quanto la citazione di Wilde coincida con il senso più profondo del romanzo: l’autrice, infatti, indica nell’Amore l’unica via di salvezza.
Leggere Come grani di melagrana, l’ho scritto all’inizio, mi ha condotto all’epoca dei miei nonni ancora giovani e di mio padre bambino. E sono convinta che, come me, tanti altri lettori possano ritrovare, attraverso i personaggi di questo racconto, quegli avi con il cui confronto scoprire un po’ di più chi siamo stati e chi tuttora, in qualità di italiani, siamo. Forse, possiamo individuare anche trisavoli, bisnonni, nonni e genitori davvero somiglianti, per certi versi, a quelli che effettivamente abbiamo avuto. Per renderci conto che, alla fine, non abbiamo ricavato dalla lettura solo un beneficio relativo alla comprensione di un capitolo della nostra Storia e alla nostra personale introspezione, ma di uno dei più meravigliosi e commoventi poteri della letteratura: tenerci buona compagnia, non lasciarci mai soli.