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A mia madre, Rita, a mia zia Teresa e a mia nonna Francesca, che non ho mai conosciuto, eppure conosco
Don Martino se ne stava sulla porta.
Nonostante i tentativi della Delfina di rifilargli qualcosa, che
non si dicesse che mancava di ospitalità, lui continuava a indugiare, mezzo dentro e mezzo fuori.
Io per conto mio ero invece ben nascosta, da lui e dalla
sua pietate. Origliavo però, che l’udito mi si affinava su certi
argomenti…
“Su Delfina, abbi pazienza! Ho mica il tempo per il vino
adesso!”
“Ma sì che lo so Monsignore… ma il vino l’è bun per tutti i
mali!”
Percepivo dal fruscio della veste tutta l’impazienza del prete,
non gli riusciva di stare fermo ed io non capivo se fosse per
colpa della magna Fina, che la pazienza l’avrebbe fatta perdere
anche ai Santi, oppure di quello che da lei andava cercando.
“Sii buona Fina! E poi non sono Monsignore!”
“Oh beh… dovrebbe esserlo secondo me!”
Don Martino stava per perdere la calma.
“Dimmi se il ragazzo è qui da te! Che non mi stupirei se lo
tenessi nascosto tra i conigli!”
Allora la zia assunse un’aria stralunata, stupita e amareggiata
insieme, anche se non potevo vederla in viso, avrei giurato che
bocca e occhi si fossero spalancati all’unisono.
“Di chi parla Don? Dell’Accardi?” Il parroco restò immobile, lo sguardo severo sulla zia. Era un sì. “Don… ma no! Glielo
direi! Mi cadessero gli ultimi denti e tutti i capelli se dico balle!”
“Non esagerare Delfina…”
Dalla feritoia tra i battenti della cucina, vedevo la grossa schiena della magna Fina che si agitava nella sua opera di
discolpa.
La stoffa talare lambiva di flutti neri le scarpe del prete.
Era del mio Nassin che stavano parlando, e il cuore mi
rimbalzava così forte tra le costole che temevo mi avrebbero
sentito.
Trattenni il fiato e fissai intensamente l’orlo di pizzo che
sbordava, con poca eleganza, dalla gonna di mia zia. Mi concentrai su quel particolare, come se mi aiutasse a origliare meglio.
“Ma si può sapere cos’è che ha combinato quel disbela?”
La curiosità era un ingrediente preponderante del composto
della Delfina e il prete le lanciava bocconi d’informazioni, come
pezzetti di pane a un’anatra affamata.
“Sembra che… qualcuno dice che… ha ferito un contadino.
Al paese da bas.”
“E come?”
“Accoltellato. Sperem che la muora no!” La donna annaspò
per lo spavento, risucchiò tanta aria da far fischiare i polmoni,
prima si tappò la bocca, poi attaccò una collana di segni di croce
fronte-mento-spalle, che non finiva più. Il tono del prete si fece
torvo, e lui più vicino. “Se lo nascondi devi dirmelo, Delfina! Se
vuoi aiutarlo… non è la maniera!”
Allora la Fina, che aveva una parola sola, sempre e per tutto, restò con la mano sospesa tra la fronte e il naso e, senza finire
di segnarsi, strinse gli occhi in due fessure aspre, che la fecero
sembrare subito meno stupida.
Due lampi di dignità e schiettezza.
“Prete! Starà mica insinuando che mento a un prete! Che
Dio mi fulmini adesso, se nascondo il ragazzo! Ecco!” (p. 25-27)
(...) Verso le otto comparve una terza suora, sempre nera come
l’inchiostro, e vecchia. Tanto vecchia che sembrava sfarinare a
ogni passo, quasi il suo viso si dissolvesse poco a poco in una
cenere opaca, e, sotto la veste, non un corpo, ma solo un soffio
a tenerla in piedi.
Dietro di lei un esercito di piccole creature mute, almeno
cento, tutte uguali e fumose.
Mi guardarono senza sollevare il viso e nei loro occhi perlacei fiaccamente grandi, vidi un barlume di benevola curiosità.
Erano femmine, non si può dire bambine, parevano avere
tutte la mia età e la mia disgrazia. Mi drizzai immediatamente
dal letto e quasi mi misi sull’attenti.
Suor di Cenere si avvicinò come un’enorme chioccia muffita,
col suo seguito di miserabili diligenti pulcini. (pgg. 43-44)
(...)
Non ero sicura di voler essere vista, eppure quella possibilità
era l’unica cosa che mi muoveva il flusso del sangue.
Per lui quasi certamente ero ancora Rachele del Vigin, con le
calze fino alle ginocchia e le labbra serrate.
La bambina che ricordava, però, era invecchiata anche più
degli anni che aveva. (...)
Ripresi a scrutarlo e fui consapevole di non essere davvero
più bambina, riuscivo a vedere me stessa da fuori, così come
mi avrebbe vista lui, se solo si fosse accorto che ero tra la folla.
I miei capelli, che erano parsi neri e morti come alghe quel
giorno d’inverno, vivevano ora di un rame chiaro avido di sole,
e la pelle grigia e sottile, che gli aveva stretto il cuore, rifioriva
come le acacie, candida e discreta, aggraziata come lo era stata
mia madre.
La Cecchina, che lui portava sempre nel cuore, l’avevo tutta
nel mento, solido e ben disegnato, e nelle labbra piene. Nonostante tutto. Gli occhi invece erano del Vigin, grigi e verdi, a
seconda di dove guardassi.
Infine anche lui mi vide, il suo cuore ebbe un moto lieve
d’allegria, me ne accorsi perché, senza che ne avesse coscienza,
un sorriso gli tese le belle labbra.
Rimase combattuto, incollato al muro, senza capire cosa lo
rendesse incerto.
Vidi la sua esitazione e mi odiai per la mia. Avrei potuto
sollevare semplicemente una mano, sarebbe bastato a entrambi.
Ma ci pensai troppo e, quando mi decisi, la magna Fina
già mi stava trascinando fuori dalla piazza, tirandomi per un
braccio.
(pgg. 109-110)
Se c’è una canzone che ha accompagnato Paciv Tuke, ma ancor prima presagito e annunciato ciò che galleggiava nei miei gorghi-pensieri, è questa.
Il testo e la melodia generano distintamente in me una gamma d’impulsi e passioni che avverto in modo fisico, e si può dire che mi trovo avvolta in qualcosa di fortemente materico.
La gioia di cui parla questo testo, confligge con certe parti del mio libro che assumono un’aria crudele e per nulla allegra, eppure mentre lo scrivevo, non ho mai potuto fare a meno di pensare ai miei personaggi, come a creature piene di luce, spinte sempre da quella “rabbia di amare”, che in qualche modo li salva.
Un po’ come l’andamento di un’altalena dalle lunghe funi, su cui si avverte la precipitazione verso un ignoto che spaventa, dietro le spalle, ma che poi ci lancia di nuovo come proiettili, verso un cielo aperto che che è un respiro nuovo, e una promessa.
Come agli artisti del circo il trapezio perpetuo, così per me, questa canzone.
" Simona Fiori