Simona Fiori

Le  boie panatere

A mia madre, Rita, a mia zia Teresa e a mia nonna Francesca, che non ho mai conosciuto, eppure conosco
  


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L'incipit...

LA MORT
I morti per la strada.
La pioggia fitta tingeva la notte di un viola umido, scivolando come mosto tra i rami nocchiuti degli alberi, tralci spogli e neri simili a mani scarnite, protese verso un presagio infelice.
Il cielo immobile era così spietato da riversare un’acqua viva, maledetta, scavatrice.
A valle, là in mezzo ai terreni incolti dove nessuno andava mai, il cimitero vecchio partoriva lapidi dalla terra corposa, tutte un po’ storte, un po’ sbeccate, di selce antica e logora, di nomi dimenticati, come in un lugubre e infantile carnevale sconnesso, e sembrava raccogliere quanta più pioggia potesse fare il paesino intero.
Pioveva da giorni in modo ininterrotto ed era inevitabile che i morti finissero per strada.
L’acqua rastrellava con le sue dita trasparenti manciate di terra zuppa e pian piano smottava tutta la superficie del camposanto, scavava tra le fessure della pietra fredda, tra gli anfratti marci del legno, tra i resti delle siepi, morte anche loro da anni…
E si alzava un odore dolciastro quasi visibile, come una nebbia aspra e nauseabonda, ad accompagnare la singolare sfilata dei resti umani, bare corrotte e cedevoli, fatte a pezzi dal tempo antico e dai liquidi pluviali, dalle lacrime dei vivi, dal piscio di qualche volpe.


Ho sempre amato Nassin, quattordici anni appena compiuti.
L’ho sempre divorato ovunque, digerito lentamente, ogni unghia sporca mangiata fino alla carne al termine di quelle sue mani brunite, da contadino, ogni capello mal tagliato alla base della nuca rotonda, sul collo liscio e dritto… ho goduto di lui da che sono nata.
La voce asciutta che tradiva le sue afflizioni di orfano, il volto aureo imbevuto di una linfa viva nonostante la magrezza del corpo, il passo adulto, gli occhi come grani d’uva bionda.
Tutto di lui ho misurato, pesato, consumato senza indugio, fatto mio.
Senza che lui lo sapesse.
Ogni volta che veniva da mamma a chiedere se servisse qualcosa, o dal Vigin, mio padre, per farsi dare un po’ di pane e verdura in cambio di una ripulita alla stalla, ogni volta dentro di me esplodeva una primavera e, tra lo stomaco e le fauci, non avevo più spazio per nient’altro.
Me ne stavo dietro la porta, un topino che aspetta le briciole: l’aroma della sua vitalità nelle stanze, i suoi fianchi stretti da una cintura di corda troppo lunga…
Rapivo ogni cosa potessero contenere i miei occhi, e la mia povera infanzia si cesellava delle sue forme, la mia speranza del suo comparire, la mia tristezza del suo andarsene.                                       
                       (p. 23)

Don Martino se ne stava sulla porta.
Nonostante i tentativi della Delfina di rifilargli qualcosa, che non si dicesse che mancava di ospitalità, lui continuava a indugiare, mezzo dentro e mezzo fuori.
Io per conto mio ero invece ben nascosta, da lui e dalla sua pietate. Origliavo però, che l’udito mi si affinava su certi argomenti…
“Su Delfina, abbi pazienza! Ho mica il tempo per il vino adesso!”
“Ma sì che lo so Monsignore… ma il vino l’è bun per tutti i mali!”
Percepivo dal fruscio della veste tutta l’impazienza del prete, non gli riusciva di stare fermo ed io non capivo se fosse per colpa della magna Fina, che la pazienza l’avrebbe fatta perdere anche ai Santi, oppure di quello che da lei andava cercando.
“Sii buona Fina! E poi non sono Monsignore!”
“Oh beh… dovrebbe esserlo secondo me!” 
Don Martino stava per perdere la calma.
“Dimmi se il ragazzo è qui da te! Che non mi stupirei se lo tenessi nascosto tra i conigli!”
Allora la zia assunse un’aria stralunata, stupita e amareggiata insieme, anche se non potevo vederla in viso, avrei giurato che bocca e occhi si fossero spalancati all’unisono.
“Di chi parla Don? Dell’Accardi?” Il parroco restò immobile, lo sguardo severo sulla zia. Era un sì. “Don… ma no! Glielo direi! Mi cadessero gli ultimi denti e tutti i capelli se dico balle!”
“Non esagerare Delfina…”
Dalla feritoia tra i battenti della cucina, vedevo la grossa schiena della magna Fina che si agitava nella sua opera di discolpa.
La stoffa talare lambiva di flutti neri le scarpe del prete.
Era del mio Nassin che stavano parlando, e il cuore mi rimbalzava così forte tra le costole che temevo mi avrebbero sentito.
Trattenni il fiato e fissai intensamente l’orlo di pizzo che sbordava, con poca eleganza, dalla gonna di mia zia. Mi concentrai su quel particolare, come se mi aiutasse a origliare meglio.
“Ma si può sapere cos’è che ha combinato quel disbela?”
La curiosità era un ingrediente preponderante del composto della Delfina e il prete le lanciava bocconi d’informazioni, come pezzetti di pane a un’anatra affamata.
“Sembra che… qualcuno dice che… ha ferito un contadino. Al paese da bas.”
“E come?”
“Accoltellato. Sperem che la muora no!” La donna annaspò per lo spavento, risucchiò tanta aria da far fischiare i polmoni, prima si tappò la bocca, poi attaccò una collana di segni di croce fronte-mento-spalle, che non finiva più. Il tono del prete si fece torvo, e lui più vicino. “Se lo nascondi devi dirmelo, Delfina! Se vuoi aiutarlo… non è la maniera!”
Allora la Fina, che aveva una parola sola, sempre e per tutto, restò con la mano sospesa tra la fronte e il naso e, senza finire di segnarsi, strinse gli occhi in due fessure aspre, che la fecero sembrare subito meno stupida.
Due lampi di dignità e schiettezza.
“Prete! Starà mica insinuando che mento a un prete! Che Dio mi fulmini adesso, se nascondo il ragazzo! Ecco!”             
(p. 25-27)

(...) Verso le otto comparve una terza suora, sempre nera come l’inchiostro, e vecchia. Tanto vecchia che sembrava sfarinare a ogni passo, quasi il suo viso si dissolvesse poco a poco in una cenere opaca, e, sotto la veste, non un corpo, ma solo un soffio a tenerla in piedi.
Dietro di lei un esercito di piccole creature mute, almeno cento, tutte uguali e fumose.
Mi guardarono senza sollevare il viso e nei loro occhi perlacei fiaccamente grandi, vidi un barlume di benevola curiosità.
Erano femmine, non si può dire bambine, parevano avere tutte la mia età e la mia disgrazia. Mi drizzai immediatamente dal letto e quasi mi misi sull’attenti.
Suor di Cenere si avvicinò come un’enorme chioccia muffita, col suo seguito di miserabili diligenti pulcini.                (pgg. 43-44)


(...) Non ero sicura di voler essere vista, eppure quella possibilità era l’unica cosa che mi muoveva il flusso del sangue.
Per lui quasi certamente ero ancora Rachele del Vigin, con le calze fino alle ginocchia e le labbra serrate. La bambina che ricordava, però, era invecchiata anche più degli anni che aveva. (...)

Ripresi a scrutarlo e fui consapevole di non essere davvero più bambina, riuscivo a vedere me stessa da fuori, così come mi avrebbe vista lui, se solo si fosse accorto che ero tra la folla.
I miei capelli, che erano parsi neri e morti come alghe quel giorno d’inverno, vivevano ora di un rame chiaro avido di sole, e la pelle grigia e sottile, che gli aveva stretto il cuore, rifioriva come le acacie, candida e discreta, aggraziata come lo era stata mia madre.
La Cecchina, che lui portava sempre nel cuore, l’avevo tutta nel mento, solido e ben disegnato, e nelle labbra piene. Nonostante tutto. Gli occhi invece erano del Vigin, grigi e verdi, a seconda di dove guardassi.
Infine anche lui mi vide, il suo cuore ebbe un moto lieve d’allegria, me ne accorsi perché, senza che ne avesse coscienza, un sorriso gli tese le belle labbra.
Rimase combattuto, incollato al muro, senza capire cosa lo rendesse incerto.
Vidi la sua esitazione e mi odiai per la mia. Avrei potuto sollevare semplicemente una mano, sarebbe bastato a entrambi.
Ma ci pensai troppo e, quando mi decisi, la magna Fina già mi stava trascinando fuori dalla piazza, tirandomi per un braccio.           (pgg. 109-110)


 

Il lavoro dello scrittore

  • Da dove nasce l'ispirazione di questo libro?  
    È stata estemporanea, quei cambi di rotta improvvisi e inevitabili che però rendono il viaggio più interessante. Cercavo qualcosa sul circo, mi sono imbattuta in una parola strana e inedita per me, l’ho indagata e un abisso mi ha trascinata, letteralmente. Raccontare quella parola, Porrajmos, è diventato un dovere.

  • Cosa ti ha convinto che l’idea era buona e funzionava?
    In realtà mi sono messa nei panni di un lettore ipotetico, mi sono detta che mi avrebbe prima incuriosito, poi destabilizzato e infine fatto soffrire.

  • Se dovessi sintetizzare in poche righe il messaggio del tuo libro quale sarebbe?
    Che l'amore, alla fine, in qualche modo, se la cava sempre.

  • Chi è il lettore ideale del tuo libro?
    Una persona curiosa, priva di pregiudizi, disposta a capire.
 

Che suono ha questo romanzo?

Se c’è una canzone che ha accompagnato Paciv Tuke, ma ancor prima presagito e annunciato ciò che galleggiava nei miei gorghi-pensieri, è questa.
Il testo e la melodia generano distintamente in me una gamma d’impulsi e passioni che avverto in modo fisico, e si può dire che mi trovo avvolta in qualcosa di fortemente materico.
La gioia di cui parla questo testo, confligge con certe parti del mio libro che assumono un’aria crudele e per nulla allegra, eppure mentre lo scrivevo, non ho mai potuto fare a meno di pensare ai miei personaggi, come a creature piene di luce, spinte sempre da quella “rabbia di amare”, che in qualche modo li salva.
Un po’ come l’andamento di un’altalena dalle lunghe funi, su cui si avverte la precipitazione verso un ignoto che spaventa, dietro le spalle, ma che poi ci lancia di nuovo come proiettili, verso un cielo aperto che che è un respiro nuovo, e una promessa.
Come agli artisti del circo il trapezio perpetuo, così per me, questa canzone.
"                            Simona Fiori
 
  • Presso Passamilsale Vicenza
    Aperitivo letterario con "Le boie panatere" Presso Passamilsale Vicenza